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Non c’è alcuna rupture, alcuna discontinuità col passato (tranne in materia di privatizzazioni): la politica economica del governo Renzi, quale traspare dal Documento di Economia e Finanzia licenziato qualche giorno fa dal Consiglio dei Ministri, è perfettamente in linea con quella catto-social-comunista degli ultimi esecutivi capeggiati – in ordine temporale – da Berlusconi, Monti e Letta. Le sue coordinate, infatti, restano sempre le medesime: più spesa corrente e più tasse. Vediamone i dettagli.
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Innanzitutto, com’è facile appurare osservando questa tabella pubblicata a pagina 36 del Def, la spesa corrente – indicata come “Spese correnti netto interessi” -, negli anni 2014-2018, lieviterà di altri 43 miliardi e 498 milioni di euro. Anche questa volta, e come viene indicato esplicitamente nel documento stesso, si è semplicemente agito sui “tendenziali futuri”: ovvero ci si è limitati a ridurre – a frenare – il tasso di crescita della spesa. Niente in più.
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Non a caso, pur in presenza di un Pil (previsto) in espansione, la spesa pubblica complessiva (comprensiva di quella per gli interessi sul debito), in rapporto al Pil stesso, subirà, sempre nel periodo preso a riferimento, una modesta contrazione: dal 51% del 2014 al 47,6% del 2018 (appena 3,4 punti in meno, in quasi un lustro). Mentre la pressione fiscale fletterà, in maniera pressoché impercettibile e probabilmente quasi solo per ragioni “inerziali” (ovvero per effetto della crescita del Prodotto Interno Lordo), di appena uno 0,7%: passando dal 44%, previsto per l’anno in corso, al 43,3 del 2018.
Gli 80 euro in più in busta paga potrebbero finire “mangiati” dalla Tasi e dall’incremento del prelievo sui risparmi. E 4 milioni di “aventi diritto” potrebbero non vederli affatto
Renzi s’era impegnato, a partire da maggio, a corrispondere sgravi Irpef, del valore di 80 euro netti mensili, a 10 milioni di contribuenti (quelli con redditi fino a 25.000 euro l’anno). Tuttavia, a conti fatti, i beneficiari della misura, come ha rilevato l’ex ministro Vincenzo Visco su LaVoce.info, potrebbero essere molti di meno; come inferiore alle attese potrebbe essere il danaro che arriverà nelle loro tasche:
«Poiché gli interventi sull’Irpef tendono inevitabilmente a tradursi nell’aumento di una delle detrazioni favorendo sempre i redditi più bassi, il risultato è non solo che per questi redditi aumentano la progressività e il fiscal drag, ma anche che si manifestano fenomeni di incapienza e cioè di detrazioni maggiori dell’imposta lorda per numerosi contribuenti soprattutto con carichi familiari che si collocano negli scaglioni più bassi.
Ciò significa che moltissimi contribuenti a basso reddito che sono in attesa dell’incremento di 80-90 euro della loro retribuzione mensile, in realtà ne otterrebbero uno inferiore o, soprattutto in presenza di figli a carico, non otterrebbero nessun aumento.
Per esempio, nel caso di un contribuente con due figli a carico (uno minore di tre anni e uno maggiore di tre anni) l’incapienza si manifesterebbe fino a un reddito di 20.200 euro, sarebbe totale fino a 17.200 euro, e pari al 50 per cento fino a 18.700 euro. I single invece, sarebbero totalmente incapienti fino a 8.200 euro di reddito e parzialmente incapienti fino a 10.400 euro. Questi limiti risulterebbero ancora più elevati in presenza di altre detrazioni cui si avesse diritto, per esempio per spese sanitarie. In sostanza, poco meno del 40 per cento dei contribuenti in attesa dello sgravio risulterebbe incapiente in tutto o in parte».
In poche parole, circa quattro milioni di “aventi diritto”, su dieci in totale, potrebbero non percepire affatto gli 80 euro netti; o riceverne, per effetto dei succitati meccanismi di detrazione (per i carichi familiari e le spese sanitarie), molti di meno. Come se non bastasse, altri 4 milioni di contribuenti, i cosiddetti incapienti fiscali veri e propri, ovvero le persone che hanno un reddito talmente basso da non essere tenuti a versare tasse all’Erario, potrebbero non beneficiare dello sgravio; anche se, in queste ore, si starebbe studiando un meccanismo per evitarlo:
«La quadratura del cerchio mira sia a individuare le coperture per altri 4 milioni di lavoratori, che non presentano dichiarazione dei redditi, sia la modalità con cui garantire lo sconto fiscale. L’ipotesi valutata ieri è quella di predisporre un meccanismo che riduca le trattenute previdenziali, liberando così i circa 80 euro, o forse meno, destinati a questa fascia di lavoratori. L’altra ipotesi è quella di un anticipo in busta paga da parte del datore di lavoro che poi riavrebbe i soldi dal Fisco compensandoli con l’F24» (Corriere della Sera).
Il punto, però, è che, se anche questi soldi dovessero arrivare e per intero agli “aventi diritto”, potrebbero finire “mangiati” dall’incremento (meglio si dovrebbe dire: dall’addizionale) dell’aliquota base della Tasi (deliberato, anch’esso, il 28 febbraio scorso, dal governo Renzi, e non da quello Letta come erroneamente si crede), e dall’inasprimento (dal 20 al 26%) del prelievo sui risparmi, per un valore di 2 miliardi di euro, finalizzato a consentire una riduzione dell’Irap.
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Secondo la Uil, ai beneficiari dello sgravio Irpef, la nuova Tasi potrebbe costare 35 euro mensili in più rispetto all’Imu. Il che significa che, a coloro cui effettivamente dovessero arrivare in busta paga 80 euro netti mensili in più, ne resterebbero soltanto 45; mentre a quelli cui ne dovessero arrivare di meno, per le ragioni esposte dall’ex ministro prodiano Visco, non ne avanzerebbe nemmeno l’ombra dopo il pagamento dell’imposta sulla casa; restando, così, a bocca asciutta (mentre agli imprenditori, secondo la Cgia di Mestre, il nuovo balzello costerebbe 1 miliardo di euro in più).
C’è, poi, il capitolo risparmio. A quanto pare, l’incremento (dal 20 al 26%) del prelievo sul medesimo potrebbe colpire anche i conti correnti e di deposito (sebbene il ministro Padoan, in un primo momento, lo abbia smentito). Se così fosse, l’entità dello sgravio Irpef si assottiglierebbe ancor di più.
Ma c’è un altro problema, serio e di natura tecnica, che pertiene all’erogazione degli 80 euro. Lo ha denunciato, inascoltata, Unimpresa:
«Lo slittamento al 18 aprile deciso dal governo mette a rischio lo sconto Irpef da 80 euro con le buste paga di maggio. Per procedere all’adeguamento di sistemi informativi e procedure avevamo chiesto al governo di varare il provvedimento entro venerdì 11 aprile. A questo punto non è più possibile garantire che l’aumento possa essere inserito nei cedolini del prossimo mese. L’operazione è complessa e lo slittamento a giugno potrebbe essere inevitabile».
Dovesse andare tutto così, Renzi ne uscirebbe con le ossa rotte: Grillo e le altre opposizioni avrebbero gioco facile a denunciarne la mendacia.
Ciò che è certo, in ogni caso, è che il Paese abbisogna di altro, e di ben più liberale e liberista, per uscire dal pantano.
Non bastano pochi euro in più in busta paga a qualcuno.
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