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Il Fiscal Compact ci costerà 50 miliardi l’anno come sostengono Grillo e gli anti-Euro? Assolutamente no. È falso

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Una delle tante storielle che gli anti-Euro ci rifilano, un giorno sì e l’altro pure, è quella secondo cui il famigerato Fiscal Compact – il trattato europeo in virtù del quale ci si è impegnati a conseguire il pareggio di Bilancio e a ridurre il debito – ci costerà, a partire dal 2016-2017, la bellezza di 50 miliardi l’anno. 50 miliardi di tagli alla spesa e/o di incrementi d’imposta. Fortunatamente per noi, si tratta di una sesquipedale balla. Vediamo perché.

Innanzitutto, il trattato, all’articolo 4, prevede quanto segue:

«Quando il rapporto tra il debito pubblico e il prodotto interno lordo di una parte contraente supera il valore di riferimento del 60% (…) tale parte contraente opera una riduzione a un ritmo medio di un ventesimo all’anno come parametro di riferimento».

Tradotto. I paesi, come il nostro, che hanno un rapporto debito/Pil superiore al 60%, dovranno ridurlo, di un ventesimo l’anno, fino a quando esso non avrà raggiunto quel valore (il 60%). Dunque, ciò che va falcidiato non è lo stock di debito (ovvero il debito in valore assoluto), che nel nostro caso ammonta a 2.107 miliardi, ma, più semplicemente, il rapporto debito/Pil (come già previsto dal Trattato di Maastricht, tra l’altro). Per conseguire tale obbiettivo, è una questione meramente matematica, è sufficiente che aumenti il denominatore di quel rapporto, cioè il Pil; ovvero che il nostro paese, come vedremo in seguito, abbia una crescita annua del 2-2,5% . E qui le cose si fanno ancora più interessanti.

Il trattato, infatti, prevede che, ai fini del rispetto dei parametri, si debba prendere a riferimento il cosiddetto Pil nominale, e non già il Pil reale (il che rende il tutto molto più semplice). Mentre quest’ultimo (il Pil reale) si limita a misurare la crescita economica che si registra in un paese da un anno all’altro, il primo (il Pil nominale), invece, tiene conto anche del tasso d’inflazione (incorporandolo). Facciamo un esempio.

Diciamo che, tra l’anno X e l’anno Y, il Pil reale del paese denominato Topolinia vari dell’1,5%; e che, sempre nello stesso arco di tempo, il tasso d’inflazione di quel paese vari dell’1%. Ebbene, alla fine del periodo preso in considerazione, il Pil nominale di Topolinia sarà pari al 2,5% (1,5% di Pil reale + 1% di inflazione).

Cosa significa, per noi, a conti fatti? Ce lo spiega l’economista, nonché docente universitario, Giuseppe Pisauro:

«Se il bilancio è in pareggio, non si genera nuovo debito. In altre parole il debito in euro non cambia. Ogni variazione del Pil nominale si tradurrà, quindi, in una variazione del rapporto debito/Pil. Si può calcolare facilmente che per rispettare la regola di 1/20, con un debito al 120 per cento del Pil e il pareggio di bilancio è sufficiente che il Pil nominale cresca del 2,5 per cento; con un debito al 100 per cento del Pil basta una crescita nominale del 2 per cento; con un debito all’80 per cento è sufficiente l’1,25 per cento. In tempi appena normali sono valori bassi. Perché si verifichino basta un po’ di inflazione. Tanto per dare un’idea, nel 2000-2007, anni di crescita reale molto bassa, la crescita nominale del Pil in Italia è stata in media del 3,6 per cento l’anno» (Giuseppe Pisauro, LaVoce.info).

Quindi, una volta conseguito il pareggio di Bilancio, ciò che ci siamo impegnati a fare entro il 2016, e con un rapporto debito/Pil attorno al 120% (oggi supera il 130), per rispettare i parametri del Fiscal Compact ci “basterà” (e si fa per dire) avere una crescita del Pil nominale del 2,5%. Senonché, il Documento di Economia e Finanza licenziato dal governo, giorni or sono, stima che, a partire dal 2016, il nostro Pil nominale cresca ad un saggio superiore al 3%.

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Variazione Pil nominale Def

Dunque, se queste previsioni troveranno conferma, per onorare gli impegni presi non avremo bisogno né di manovre correttive di modesta entità, 2-3 miliardi, né di tagli di spesa del valore di 50 miliardi l’anno.

Ma la storia non finisce qui. Altro ancora rende il Fiscal Compact tutto fuorché una cosa preoccupante.

Il governo in carica, come quelli precedenti, si è impegnato a varare una serie di privatizzazioni il cui ricavato, si stima 12 miliardi l’anno per almeno un triennio, verrà utilizzato per ridurre lo stock di debito (che ammonta, ricordiamolo, a 2.107 miliardi). Questo farà sì che il rispetto dei succitati parametri sia ancora più agevole.

Come se non bastasse, dal prossimo settembre entrerà in vigore Esa 2010. Vale a dire un nuovo sistema per calcolare la ricchezza delle nazioni europee; in forza del quale, a determinare l’entità del Pil di ogni singolo paese concorreranno anche alcune voci, come ad esempio le spese per armamenti e quelle per la ricerca e lo sviluppo, che oggi, invece, vengono contabilizzate come “passività”. Grazie a questo artificio contabile, si stima che il nostro Pil possa avere una crescita aggiuntiva dell’1-2%. Rendo?

Ma la storia non finisce nemmeno qui.

Cosa accadrebbe se il nostro Pil, malauguratamente, dovesse non aumentare ma addirittura contrarsi, e se noi non si riuscisse a ridurre il rapporto debito/Pil di un ventesimo l’anno, come prescrive il Fiscal Compact? Non accadrebbe una beneamata mazza, come ha raccontato Davide De Luca (uno dei pochissimi giornalisti, veri, in circolazione):

«La procedura con cui si arriva alla “condanna” è spiegata all’articolo 126 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea. Per farla breve, si tratta di una procedura bizantina in cui il Consiglio è chiamato a riunirsi e a votare parecchie volte. Deve votare per stabilire che effettivamente c’è stata una violazione, deve votare per mandare un primo avvertimento – non pubblico – allo stato in questione. Deve votare per inviare un secondo avvertimento pubblico, deve votare ancora una volta per aprire ufficialmente una procedura di infrazione e, infine, se dopo tutti questi voti e avvertimenti le cose non sono ancora cambiate, può votare un’ultima volta per comminare multe o altre sanzioni allo stato in questione.

Se non vi sembra una cosa rapida e semplice avete ragione. In realtà è ancora più complessa di quanto si potrebbe pensare. Al Consiglio non vale la regola “una testa un voto”: ogni capo di governo vota – per farla semplice – in base al peso della sua popolazione sul totale europeo. Per far passare queste decisioni c’è bisogno di una maggioranza particolare – il calcolo è abbastanza complesso: in sostanza si tratta di una maggioranza più ampia della semplice maggioranza assoluta. Per ottenere questa maggioranza non bastano i cosiddetti “paesi virtuosi” del nord Europa. In sostanza: senza il voto del paesi del sud Europa – quelli che più probabilmente finiranno col violare le regole del Fiscal Compact – non è possibile che il Consiglio emetta alcuna sanzione».

Praticamente è la stessa, lunghissima, procedura che, negli ultimi anni, è stata utilizzata per sanzionare i paesi con un rapporto deficit/Pil superiore al 3%. Cosa è accaduto loro? Ce lo dice sempre De Luca:

«La Commissione ha richiesto – e il Consiglio approvato – l’apertura di una procedura per deficit eccessivo nei confronti di 26 paesi diversi. Sapete quante volte questi paesi sono stati multati? Se avete risposto “mai”, allora avete dato la risposta giusta».

Lo si spieghi a Grillo e agli altri cazzari anti-Euro.

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